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Il Kilimangiaro e la paura, un viaggio dentro e fuori

KILIMANJARO AKUNA MATATA, ASANTE SANA

Iniziamo con la pioggia: sono pronta.

Io dentro un involucro che mi ripara. Sento le gocce, il loro rumore mentre atterrano sulla mia pelle di plastica. Non mi toccano, fino a quando non guardo in su, il cielo basso e carico, il verde lucido che mi accompagna sui lati: foresta.

La terra rossiccia e morbida sotto i piedi: fango. Gli scarponi camminano sul morbido in questo primo tratto.

Sono fiduciosa, può solo migliorare. Tutto bene.

I portatori sono già partiti, prepareranno il campo della prima sera, le due guide con noi. Due bocche piene di denti forti e candidi. Scoprirò che Martin, una delle guide, li mostra spesso, mentre si piega in avanti incrociando un po’ le mani, la risata lo curva. E’ una risata gioiosa e grassa, pronta.

Lo so che non sono allenata a sufficienza, non lo sono mai. Dal 2010 l’anno in cui ho scoperto l’amore per il trekking in alta quota, prometto che per l’anno seguente sarò più allenata.

Poi apro il solito libro delle scuse, in ordine alfabetico cerco la P: pioggia. Quest’anno ha spesso piovuto nel basso Piemonte, è vero: Assolta.

Ho paura? Si. Fiducia? Di più. Follia? Si, sparsa come il sale tra una sinapsi e l’altra: insaporisce i pensieri, li rende leggeri, spazza le incrostazioni di paura che si stanno formando.

Il mio corpo funziona come un diesel, si scalda piano piano. La prima ora di cammino è sempre una grande fatica. Poi tutto si mette in moto, il sangue scorre meglio, i polmoni si aprono ad un’aria diversa che perde migliaia di molecole di ossigeno mentre salgo.

Bevo acqua, molta. Il corpo si mangia l’ossigeno che contiene.

La sera, in tenda, prima di dormire leggo il programma: ogni sera. Sorvolo il numero di kilometri previsti per il giorno dopo. Leggo di sfuggita parole come: tratto più difficile, sfida del Barranco, oggi la salita sarà impegnativa. Leggo di fretta, affinché le parole scritte non si aggancino alla paura che inizia a prendere forma perché la scalata finale si avvicina.

Il paesaggio è cambiato, la foresta ha lasciato il posto alla brughiera e la brughiera al deserto alpino: rocce, rinsecchiti piccoli ciuffi d’erba. Le gigantesche lobelie sono sparite, così i muschi e i piccoli alberi.

L’aria è fresca ma non fredda, il sole forte, ruggisce come il leone che abita la savana più in basso.

Il Kilimanjaro è sopra di me, sembra un pacifico panettone, dolce e gentile.

E’ invece un vulcano di 5.895 mt, che significa “piccola collina lontana”, così lo avevano chiamato gli abitanti della savana, che lo vedevano piccolo da lontano.

Ci siamo, questa è la notte della scalata.

Sveglia alle 2,30. Sono le 21.

Devo dormire oppure non riuscirò salire, inizio con questo pensiero che non se ne va, anzi, accoglie adesso con piacere la paura. Diventa il mio mantra negativo.

La paura invade il mio corpo e lo agita e quindi inizia la danza nel sacco a pelo: pancia in su, pancia sotto, fianco destro, sinistro e ricomincia.

Mezzanotte: i gruppi iniziano a salire, mi sembra passino attaccati alla mia tenda, anche se so che non è possibile perché il sentiero è più in alto.

Ma la notte amplifica i rumori.

L’Una: la paura adesso è più grande, è come una vibrazione che attraversa il corpo.

Si parte, sono le Tre. Imbacuccata per bene contro il freddo, che pare sia -12, prendo lo zaino con le due borracce di acqua bollente girate al contrario, l’acqua gelerà, ma non tutta in questo modo.

Partiamo.

La luna è quasi piena, le stelle a pochi metri dal mio naso. L’aria è gelida, pulita.

Ho una torcia frontale fucsia e i bastoncini nelle mani. Lo zaino pieno di shottini energetici e barrette proteiche.

Ho il cuore pieno di desiderio di arrivare in cima. No, la paura non se n’è andata, la porto con me.

Per ora non mi ferma.

Cammino guardando in basso, vedo solo il tratto di roccia che calpesto, ma quando alzo un po’ lo sguardo, c’è un mare fatto di nuvole biancastre, un mare calmo illuminato dalla luna sotto di me.

E’ toccante, apre il cuore, lo pacifica. Quando sono intenta a guardare quel mare, la paura non mi abita. Si ritira silenziosa in un angolo.

Cammino e inizio a sentire il freddo, nonostante il movimento e l’abbigliamento.

Cammino e la luna inizia la sua discesa, dentro il mare di nuvole.

Cammino e il buio diventa totale.

L’ora più buia è quella che precede l’alba.

Mentre la luna se ne va, l’altitudine inizia il lavoro sul mio corpo.

No, no, no! Non adesso. Mancano ancora diverse ore alla cima.

Sono anche un po’ arrabbiata, ho già avuto alcuni sintomi due giorni prima a 4.000 metri circa, ho già pagato il prezzo dell’altezza. Illusa!

Ed è da qui, dal corpo in tilt (stomaco, intestino, testa) che inizio il mio lavoro più grande: tirare fuori le gambe emotive, coltivare il desiderio. Dominare la paura.

Sta sorgendo il sole, è più caldo ed io ho più freddo. Molto più di prima. Rimango sola con Martin, la guida che si piega quando ride, lui mi da il suo piumino. E’ arancione e spesso, leggero.

Cammino ma si chiudono gli occhi. Ho sonno e sono sfinita.

Mi siedo con le spalle appoggiate ad una roccia.

Mi addormento immediatamente. Mi sveglio, sono passati 5 minuti. Lui è sempre lì in piedi: “Andiamo?”

No.

Non posso, sto male. E sto male davvero. Sento il corpo in tilt, ricordo il cartello di avviso, di scendere se ci sono dei sintomi. Voglio scendere. Va bene così. Lo penso, lo sento.

Paura, paura, paura……….

Di che cosa ho paura, non può essere in generale. La esploro in dettaglio.

Di non poter più scendere. Sono sfinita, mancano più di due ore a Stella Point. Poi dovrò scendere altre 4 ore circa,  un’ora di sonno al campo e nuovamente altre 4 ore per raggiungere il campo per la notte.

Una giornata infinita. Se arrivo su, chi mi porta giù? Non ci sono Yak come in Laddak né cavalli come in Perù, per riportarti giù se non stai bene.

Ma chi li ha mai usati? Non ci sono mai salita durante i trekking.

Mi chiedo perché con tutti gli animali che ci sono in Tanzania, non uno è stato creato per salire in alta quota. Una zebra? Uno gnu? Gli gnu avrebbero potuto salire no? Pensieri stupidi, rotondi.

La paura è potente, genera scenari di pericolo, aumenta i sintomi, blocca.

Quando hai paura, non hai voglia di utilizzare gli strumenti che hai per gestirla, è più facile scivolarci dentro e invischiarsi fino a rinunciare. E’ più comodo.

Così come per il dolore, alcune volte è più facile invischiarsi di dolore e sofferenza che avere il coraggio di alzarsi per toccare altre emozioni. Abitudini.

Quante volte nella mia vita ho rinunciato per paura? Quante volte ho soffocato un progetto per paura del giudizio, perché portava pensieri nuovi, approcci nuovi? Oppure perché abito a Cuneo, e non a Londra o Madrid o Santa Barbara come alcune mie colleghe. Bella scusa questa, per non osare creare qualcosa che non c’è. Come se le Donne di Cuneo e dintorni non avessero gli stessi problemi delle donne che abitano in altre grandi città. Scuse costruite con la paura.

La paura blocca e ti offre la rinuncia. Però sei salva: finta salvezza.

Questa non è la paura che salva, ma quella che limita qualcosa di possibile. Qualcosa di possibile.

Allungo la mano, quella dei ricordi, per afferrare qualche strumento che ho.

Ricordo la donna Peruviana che abitava a 4.600 mt.  in una baracca dignitosa.

Lei vestita di tutto punto con il vestito tradizionale, ai piedi del l’Apu Quotallaully. Mi aveva offerto di respirare con i piedi, di succhiare l’energia della Terra di Pachamama, immaginare di assorbirla attraverso i piedi, energia e ossigeno. Dovevo rimanere concentrata.

Ricordo altri maestri: “Hai paura? E allora? Vai insieme alla paura, cammina con lei a braccetto, ma non lasciare che ti blocchi”.

Ma soprattutto più di ogni altro strumento, lascio spazio alla Donna Saggia che abita in ogni Donna,  La Que Sabe. Quella che sa. La parte più profonda in noi, che conosce i meccanismi della mente e sa placarli. Lei che mi ha salvata molte volte, da brutte esperienze. Perché se libera, se ha il suo spazio, Lei ti aiuta e ti Salva. Lei non ti inganna, come invece fa la mente.  Lei calma tutte le altre parti di noi, o possiamo definirle “le altre donne che abitano in noi” che hanno paura, rabbia, che sono meno stabili ….e prende il comando. Lei sa. Lei conosce la strada. Questa parte in noi è forte e affidabile.

Va bene riparto!

So da esperienze precedenti, che il corpo ha sempre dell’energia nascosta. Se sai toccarla, la puoi liberare!

Riparto e tolgo il giubbotto arancione di Martin.

Il mantra è questo: il mio corpo è forte e solido, le mie gambe leggere.

Lo ripeto centinaia di volte. Entro in un loop, dove il pensiero è una preghiera ripetitiva.

Poi mi sposto con il pensiero, mi sposto nel cielo con i corvi che volteggiano. Però! A questa altezza!

Quando non senti più il corpo, è più facile fare lo sforzo. Se ti sposti con il pensiero all’esterno del tuo corpo, in progetti che vuoi realizzare e li pensi con precisione, senti meno la fatica.

Il corpo continua a camminare costante, ma tu senti meno i disagi.

Aumento il desiderio, non tanto di raggiungere una punta, un numero. Ma il desiderio di rompere fisicamente uno schema legato alla paura. Coltivo il desiderio.

Se si rompe un limite fisico, spesso si rompe anche il limite emotivo e di pensiero.

Sono su questo vulcano per questo: non permettere più alla paura di mangiarsi i miei progetti.

I progetti più difficili da portare a termine.

Lo spacco questo limite.

Respiro dalla terra, salgo a braccetto con la paura di non avere la forza di scendere, ripeto il mio mantra, penso ai miei progetti minuziosamente, come se fossero già realizzati. Sento la forza che accarezza il mio corpo, prima come un vento leggero e poi come una migrazione di migliaia di animali per le terre sconfinate della savana. Potente! Concreta!

Guardo a terra, adesso c’è la neve. Alzo lo sguardo attorno a me: si è cristallizzata in onde taglienti, verticali. Una meraviglia!

Alzo lo sguardo, la punta è a poca distanza. Incrocio una giovane ragazza americana, mi dice che anche lei ha pianto. Pensava di non farcela. Anche io sto piangendo, sgorga forte il pianto, a pochi metri da Stella Point. I piedi sempre più lenti.

Sgorga potente il pianto. Le labbra tagliate e il sapore del sangue sulla lingua.

Sgorga liberatorio il pianto, sono arrivata: nonostante la paura.

Arrivo e ricevo un abbraccio, pieno, di condivisione. Una meta raggiunta insieme.

Un abbraccio solido. Un pianto condiviso. Un impasto di cuori.

Mi sdraio, sotto un sole così forte che mi ustionerà un po’ le mani, adesso prive di guanti.

Stella Point, dal cartello che segna l’altezza: 5.750. Vedo l’altra punta, a 45 minuti,  150 metri di altezza in più.

Vieni?

No, Mi Amor.

Adesso non è più paura.

E’ rispetto del mio corpo, consapevolezza che ha fatto molto.

Non mi interessano quei metri in più. Non sarei differente con 150 metri in più.

Il lavoro sulla paura l’ho fatto.

Mi addormento seduta. Il cuore pieno. Gonfio.

E’ di una bellezza infinita il paesaggio.

La montagna mi fa questo effetto, mi spalanca il cuore. Mi commuove.

Nelle ore seguenti, riuscirò a scendere al campo, dormirò come un sasso per un’ora e mezza e poi raggiungerò il campo base successivo, dopo altre 4 ore sotto la pioggia.

Foresta lucida!

Fango morbido.

Giornata infinita.

Giornata piena di vita.

KILIMANGIARO AKUNA MATATA (Nessun problema – Tutto bene)

KILIMANGIARO ASANTE SANA (Grazie mille).

Isabella